Nella fotografia c’è una realtà così sottile che diventa più reale della realtà.

Alfred Stieglitz.

 

Ho sempre avuto una passione per la fotografia, fin da quando a dieci anni mio cugino mi regalò una Cosina, reflex giapponese poco conosciuta. Ricordo che in quinta elementare la portai a scuola, in gita. La mia maestra mi guardo’ con aria interrogativa e mi chiese: “Ma i tuoi genitori ti lasciano questa macchina in mano?!”. Io non capii quell’affermazione, a me pareva del tutto naturale.

Da quel giorno il mio amore per le fotografie non fece che aumentare. Per questo oggi se l’occasione me lo consente, trasfondo questa passione anche nel mio lavoro.  Un paio di mesi fa mi capitò anche di seguire una formazione in tal senso: PhotoTherapy Techniques.

Ci sono vari modi per utilizzare le fotografie. Ad es. nel Photoprojective vengono mostrate una serie di fotografie ed attraverso di esse si inizia a raccontare una storia, quella del paziente, e della sua visione del mondo.

Altro modo invece è quello di far scegliere al paziente delle fotografie che gli sono state scattate, o che lui ha scattato alle persone a lui care. Io utilizzo soprattutto scatti della famiglia d’origine poichè dopo aver sentito narrare le storie famigliari è sempre interessante poter dare un volto a nomi ed aneddoti narrati. In questo modo si notano particolari che non erano mai saltati agli occhi, seppur lapalissiani: distanze prossemiche nascoste, occhi che paiono guardare altrove, corpi che si toccano (oppure no), persone che non avrebbero dovuto esserci ma che in realtà sono presenti negli scatti. Il tutto molto naturalmente, senza traumi o sofferenze perché in fondo… “una foto e’ solo una foto…”.

Se quelle foto potessero parlare cosa direbbero? Quali segreti svelerebbero? Cosa potrebbe essere celato dietro quegli scatti solo apparentemente cristallizzati? Cosi, grazie a uno strumento che ormai è entrato (anche troppo) a far parte della vita di ciascuno, si riescono a rielaborare storie di vita. Non è importante essere dei “bravi fotografi”, la tecnica non è essenziale anzi, il più delle volte è un ostacolo. Cio’ che è fondamentale invece è ciò che la foto ci trasmette, che emozione ci suscita.

Già l’atto di scegliere la foto è terapeutico, perché esse non sono “scelte a caso”. Fotografie dimenticate in vecchi album di famiglia, magari nella casa di un padre che non si vede da tempo, ci chiamano e noi andiamo, senza porci tante domande. Anche così è possibile ricominciare a “parlarsi” proprio attraverso una foto.

Un esempio tra molti. Moira Ricci, fotografa Toscana, nel suo primo progetto dal titolo “20.12.53 – 10.08.04”, pensato e realizzato dopo la morte improvvisa della madre, riprende foto di quest’ultima. Con un programma di fotoritocco vi si inserisce, quasi a volerla avvertire che qualcosa di brutto sta per accadere. A colpire è che l’autrice non guarda mai in macchina; il suo sguardo è sempre rivolto alla madre e a chi è con lei nel contesto. Come afferma la Ricci in un’intervista: “Avevo bisogno di entrare nelle foto di mia madre perché la volevo rivedere viva e solo nelle foto lo era. Per qualche giorno ho creduto che fosse più possibile entrare dentro ad un pezzo di carta che pensare all’assenza, al fatto che lei non ci fosse più e che non l’avrei mai più rivista”.

Anche così possiamo elaborare un lutto. Perché come dice Ansel Adams: “Non fai solo una fotografia con una macchina fotografica. Tu metti nella fotografia tutte le immagini che hai visto, i libri che hai letto, la musica che hai sentito, e le persone che hai amato“.

Ora andate a tuffarvi nelle vostre!

 

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Dott.ssa Sabina Natali, Psicologa, Psicoterapeuta Torino
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