Un uomo non può essere ebbro di un romanzo o di un quadro, ma può ubriacarsi della Nona di Beethoven, della Sonata per due pianoforti e percussione di Bartók o di una canzone dei Beatles.

Milan Kundera

 

Ho iniziato a occuparmi di ansia da palco, casualmente, ormai sette anni fa e da allora la mia ammirazione per chi ha scelto di dedicare la sua vita ad uno strumento non ha fatto che aumentare. Stimo soprattutto i miei pazienti musicisti classici che dopo sofferenze, tentativi di soluzione non così efficaci, confronti con colleghi e pastiglie (credute) “miracolose” hanno deciso di occuparsi una volta per tutte della loro ansia da palco.

Stimo la loro dedizione cieca e totale allo strumento scelto: ore e ore fin da bambini, a battere tasti, far muovere archetti con una precisione millimetrica o buttare fiato in un flauto o in un clarinetto. Per non parlare dello studio dello spartito, della tecnica, dei viaggi in Europa per perfezionarsi, dei costi delle masterclass e dei Maestri dai quali prender esempio, puntando a diventare come loro. Poi i concorsi tentati e spesso falliti, non necessariamente per incapacità ma perché c’era qualcuno anche solo un po’ più “capace ” di loro prima o una prelazione, un posto in meno in una graduatoria per l’orchestra, per non parlare delle logiche di palazzo e chi più ne ha più ne metta…

Indipendentemente dalle singole storie che sento raccontare, i “miei musicisti ” (come affettuosamente li chiamo quando rifletto su di loro) hanno qualcosa in comune: hanno perso il piacere di suonare. Rincorrono la vincita del concorso come Wile E. Coyote rincorre Beep Beep nel vecchio cartone creato da Chuck Jones nel 1948 per la Warner Bros.

Hanno in mente solo di superarlo, costi quel che costi. Questo legittimo desiderio però con il tempo rischia di diventare un pensiero ossessivo, che certo non li aiuta. Hanno perso il piacere fare musica, fine a sé stessa senza dover avere come secondo fine raggiungere un obiettivo, per quanto importante sia. Non ricordano più quanto è bello perdersi in un pezzo, provare emozioni che solo l’Adagietto della 5 Sinfonia di G. Mahler o il concerto per violino e orchestra K 219 di Mozart possono regalare (ho citato i primi che mi sono venuti in mente ma si può riempire a piacimento la lista). Aiuto loro, tra le altre cose, a ritrovare quel piacere ad es.prescrivendo di prendere il loro strumento e andare a suonare per strada, avendo cura di aprire le custodie degli stessi per racimolare qualche euro, così tanto per unire l’utile al dilettevole. Se proprio non vogliono farlo nella loro città sono magnanima: concedo loro di andare da qualche altra parte ma solo per suonare per il gusto di suonare. Dapprima mi guardano come se stessi chiedendo loro di fare una cosa stranissima. Alcuni dicono anche: “Non lo farò mai”. Dopo avermi dato fiducia sono molto contenti e iniziano a cambiare…Mi riferiscono che non avevano mai riflettuto su questo aspetto, non si erano mai resi conto di essere ormai in un ingranaggio dal quale non riuscivano ad uscire.

Concludo qui per limiti di spazio, ma lo faccio con una storia Zen che viene all’uopo.

Matajuro Yagyu era il figlio di un famoso spadaccino. Suo padre, convinto che l’attitudine del figlio fosse troppo scarsa per fargli raggiungere la maestria, lo disconobbe.

Così Matajuro andò sul Monte Futara e là trovo il famoso spadaccino Banzo.

Banzo confermò il giudizio. “Tu vuoi imparare a maneggiare la spada sotto la mia guida?” domandò. “Ti mancano i requisiti indispensabili“.

Ma se lavoro sodo, quanti anni mi ci vorranno per diventare un maestro?” insistette il giovane. “Il resto della tua vita” rispose Banzo. “Non posso aspettare tanto” disse Matajuro. “Se accetti di darmi lezione, sono pronto a sottopormi a qualunque fatica. Se divento il tuo devotissimo servo, quanto tempo mi ci vorrà?

Oh, forse dieci anni” disse Banzo addolcendosi.

Mio padre si sta facendo vecchio e presto dovrò prendermi cura di lui” continuò Matajuro. “Se lavoro ancora più assiduamente, quanto tempo mi ci vorrà?” “Oh, forse trent’anni” rispose Banzo.

Ma come!” disse Matajuro. “Prima hai detto dieci anni e ora trenta! Accetterò qualunque privazione pur di imparare quest’arte nel tempo più breve!” “” disse Banzo “allora dovrai restare con me settant’anni. Un uomo che ha tanta fretta di ottenere risultati raramente impara alla svelta“.

E va bene” dichiarò il giovane, comprendendo infine che gli stava rimproverando la sua impazienza. “Accetto“.

Matajuro ebbe l’ordine di non parlare mai di scherma e di non toccare mai una spada. Cucinava per il suo maestro, lavava i piatti, gli rifaceva il letto, puliva il cortile, curava il giardino, tutto senza che si parlasse mai di scherma.

Passarono tre anni. Matajuro continuava a lavorare. Pensando al proprio avvenire era triste.  Non aveva ancora incominciato a imparare l’arte alla quale aveva votato la propria vita.

Ma un giorno Banzo scivolò alle sue spalle e gli diede un colpo terribile con una spada di legno. L’indomani, mentre Matajuro stava cucinando del riso, Banzo tutt’a un tratto gli saltò di nuovo addosso.

Da allora, giorno e notte, Matajuro dovette difendersi dagli assalti inaspettati. Non c’era giorno, non c’era momento che non dovesse pensare al sapore della spada di Banzo.

Imparò così in fretta che la faccia del suo Maestro era raggiante di sorrisi. Matajuro divenne il più grande spadaccino del paese.

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Dott.ssa Sabina Natali, Psicologa, Psicoterapeuta Torino
C.so IV Novembre, 8.
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