Come psicologa a Torino https://www.natalipsicologatorino.it il concetto di resilienza è uno dei principali “strumenti di lavoro”.

Il cancro… un processo di creazione impazzito, pensai
Philip K. Dick

Un sabato mattina qualsiasi, presa da mille commissioni. Tra uno spostamento e l’altro Radio2 diceva la sua. Solitamente non ci faccio troppo caso, è semplicemente un sottofondo tra un semaforo e l’altro. Questa volta però la mia attenzione viene catturata all’istante. Il pezzo della trasmissione: “Non è un paese per giovani” recitava: “È sempre troppo breve una cosa bella. Non mi basta. La vorrei fino ad esaurirla. Io non mi voglio alzare da tavola con la fame. Finisco tutto il mio e tutto il tuo. Fagocito. Divoro. Certe regole della nonna non sono buone.” Il riferimento è ad uno dei detti popolari delle nonne appunto, secondo il quale dalla tavola bisogna sempre alzarsi con un pò di fame.

E sempre per colpa di quelle strane vie che prendono a volte i nostri circuiti neuronali (e vai a capire perchè!) mi sono venute alla mente le storie di alcune pazienti, che sto ascoltando nel mio studio di Torino. Storie di giovani donne interrotte da malattie “pesanti”. Donne che avevano terminato il percorso terapeutico e dopo mesi, per il follow up, sono tornate raccontando cosa era successo loro nel frattempo TERAPIA INDIVIDUALE. Malattie “cattive”, a volte subdole, il cui racconto ho ascoltato in religioso silenzio, perché davanti alla sofferenza a volte non c’è molto da dire. Sono racconti di persone che la malattia l’hanno superata e adesso sono li a raccontartela. Ormai hanno superato sia la fase di shock che le successive…

In tutti i casi ciò che più di tutto traspare è il fatto che la malattia (solitamente tumorale, ma non solo) interrompe il progetto di vita e ne cambia, radicalmente e senza appello, la prospettiva. I sacri testi affermano che la malattia è da annoverare tra gli eventi paranormativi ovvero tutti quelli che rappresentano passaggi critici, non prevedibili, che creano e rompono legami e quindi vanno ad influire anche sulla rete di appartenenza.

Scrive Cyrulnik (2000):”Ma quando la vita ci mette a dura prova dobbiamo forse arrenderci?E se decidiamo di lottare quali armi abbiamo a disposizione?”.

Non è più la vita di prima. Ciò che queste persone stavano: progettando, facendo, dicendo al mondo non è e non può essere più così. Dipendenze affettive, ormai superate, fanno capolino nuovamente con tutta la loro seduttività, svincoli compiuti dalle famiglie d’origine tornano a essere presenti, amicizie che erano date per assodate vengono fortemente messe in crisi.

Come se la malattia avesse portato con sè’ un nuovo paio di occhiali per guardare il mondo, non necessariamente peggiore, semplicemente diverso. Ciò che queste pazienti mi comunicano è che senza la terapia ormai terminata non sarebbero mai riuscite ad affrontare tutto ciò che hanno affrontato. Dottoressa, la Rachele di quando sono venuta da lei sarebbe stata annientata da questo tumore. Ora invece mi trovo a pensarlo in modo differente”. La terapia aveva dato loro degli strumenti, che anche nella sofferenza più cupa erano tornati utili.

Il problema non è tanto e solo ciò che ci capita nella vita ma il modo in cui lo si affronta. Qui prendo a prestito le parole del grande Tiziano Terzani, che, forse inconsapevolmente, ha scritto un libro sulla resilienza: “La fine è il mio inizio”, Longanesi, Milano, 2006. 

“Viaggiare era sempre stato per me un modo di vivere ed ora avevo preso la malattia come un altro viaggio: involontario, non previsto per il quale non avevo carte geografiche, per il quale non mi ero in alcun modo preparato, ma che di tutti i viaggi fatti fino ad allora era il più impegnativo, il più intenso” .

Per affrontarlo ogni strumentazione risulta non solo ben accetta ma fondamentale.

Si deve affrontare il lutto per un progetto di vita immaginato, sperato, voluto e che ora per un motivo o per l’altro non può più essere. Ciò però porta in primo piano il tema della resilienza (su cosa sia e si intenda, si veda l’articolo ad essa dedicato in questo sito).

La riorganizzazione della propria vita, il desiderio di trasformare gli eventi in una ristrutturazione del  proprio progetto di vita, la possibilità che un evento così negativo diventi opportunità di crescita e cambiamento sono le eredità sane che la malattia lascia. “Ho capito tante cose ma più di tutto che voglio riprendere in mano la mia vita in modo diverso”. 

Chiudo qui, consapevole che molto altro ci sarebbe da dire e che neppure quel molto sarebbe abbastanza. Lascio le ultime parole al pezzo di sabato pomeriggio di cui parlavo all’inizio, che sia di buon auspicio a tutti, indipendentemente dalla malattia.

“Mi sono alzato da tavola con la fame, lasciando nel piatto un po’ di maccheroni e melanzane. Ho sofferto come un cane. E alla fine le ho mangiate fredde, di notte, dal frigo. Io sono debole, che avete contro i deboli? Ci volete mettere in esilio pure a noi? Ci volete rispedire al mittente perché non abbiamo la forza di lasciare qualcosa nel piatto? A me piace quando anche l’ultimo pezzetto di sugo viene raccattato dal pane e il piatto torna sgombro, quasi pulito. Invece, è sempre tutto troppo breve.  

Quando il sole inizia a scaldarti è già buio. Ora che sto bene arriva il freddo. Adesso che ho rotto il fiato è finita la partita. Ma quand’è che non si smette mai? Quando? Tu sei breve amore mio, già lo so. Durerai vent’anni, trenta, quaranta? Sei breve. Mi alzerò da tavola con la voglia di te e questo non sarà bello. Bello è quando ci si annoia perché il tempo non passa. Bello è il confine col troppo. Eppure tutto il bello è breve. Lo vedo passare in un attimo. Come in un gran premio, con un movimento della testa da sinistra a destra. Ecco è passato. È passato tutto, ora mi resta il brutto. Quell’abbraccio è breve, quel sorriso pure; mi vuoi dare un bacio, per favore, che sia inopportuno? Un bacio che baci e non che smetta, mi vuoi dare una fetta di te, che non resti nel piatto? Tanto poi sennò ti mangio stanotte, dal frigo. Sei breve. Tutto quel bello che ho rubato in giro, nelle albe del Padule e nei contorni netti della mia pineta, sono troppo brevi. Eppure la vita, se la metti su carta, è lunga, tortuosa, ma se la vivi no, è breve, spietata e punge, come il gambo di quella rosa là, già sbocciata, anche lei fottuta, bella e breve, nell’altalena del tempo che la fiorisce per così poco. È tutto troppo breve. Io non respiro nemmeno, perché sennò passa tutto. Sto in apnea, tiro su ogni tanto qualche filo d’aria, per non schiattare, ma resto immobile per non consumare nulla. Voglio che tutto resti in eterno, così come è stato creato, perché comunque sia accaduto, è stato creato bene, troppo bello, e non va lasciato nel piatto, cara nonna.

Dott.ssa Sabina Natali, Psicologa, Psicoterapeuta Torino
C.so IV Novembre, 8.
E-mail: info@natalipsicologatorino.it
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